15 novembre 2014

Bollywood: la mia storia d'amore - Valentina

Fanaa


La nostra lettrice Valentina racconta, nel testo che segue, com'è nato il suo amore per il cinema indiano. E voi? Cosa aspettate a seguire il suo esempio?

Le estati televisive, si sa, sono una desolazione. Solo scarti e repliche. Quale disperato curatore di palinsesti di Rai Uno avrà avuto, allora, diversi anni fa, l’idea di pescare qualcosa, giusto per riempire qualche vuoto, dalla più prolifica industria cinematografica del pianeta? Ecco nascere, così, la rassegna intitolata Le stelle di Bollywood. Cosa avevo da perdere nel dare un’occhiata? Le copie delle pellicole trasmesse erano evidentemente copie “di fortuna”: le immagini erano mediocri e i titoli tradotti in italiano sembravano provenire direttamente dalla produzione letteraria di Liala.

Uno dei primi film raccontava, come molto spesso accade, la storia di un uomo e di una donna. Lui era evidentemente un “conquistatore seriale”, un inguaribile seduttore che si compiaceva di proclamare la propria demoniaca inaffidabilità. Per affascinare usava, tra l’altro, la parola. Mentre covava la propria vittima con sguardi di falco, sapeva improvvisare irresistibili versi d’amore che fiorivano sulle sue labbra beffarde. Di fronte a lui sedeva una giovane donna dall’ampio sorriso, con sopracciglia come ali di rondine. Era cieca ed era il prototipo della donna – angelo. Sapeva rispondere ai versi a lei dedicati con versi altrettanto belli. Per sé non chiedeva nulla, non pretendeva nulla. La sua intatta innocenza non era ingenuità, la sua generosità, onestà e fiducia non erano stupidità.
Miracolosamente, l’attrice che interpretava questa ardua parte, così facilmente soggetta a scadere nel banale, perfino nel ridicolo, riusciva a rendere il personaggio credibile: sia lui che lei reggevano bene la situazione narrativa e i loro rispettivi ruoli. Seguii tutto il primo tempo della pellicola già mezza rapita e conquistata. Poi il film subiva un’incredibile, pazzesca virata: la trama diventava melodrammatica ed inverosimile; gli orrori della geopolitica irrompevano nella vicenda privata e personale dei due protagonisti. E nonostante ciò, passando di meraviglia in meraviglia per la sfacciata audacia di tante assurdità accumulate, guardai il film fino in fondo e non mi pesò affatto la lunghezza.



Sì, perché scoprii ben presto che questi film sono lunghissimi. La loro lunghezza ha qualcosa a che fare con quei romanzi popolari appassionanti e voluminosi, di stampo ottocentesco, che ti fanno entrare in un mondo nuovo e si vorrebbe non finissero mai. I film indiani accompagnano lo spettatore e prolungano la vicenda quasi rincrescesse loro il lasciar andare il pubblico incantato nel buio della sala. Vogliono offrire emozioni a piene mani, senza risparmio e senza prudenza; desiderano proteggere, per qualche ora, dalle afflizioni del reale con lucide illusioni, con archetipi immortali. C’è un’essenza in essi che somiglia alla donna cieca interpretata, ora lo so, da Kajol: una sorta di innocenza che sa di giovinezza, di un paese e di un pubblico ancora non smaliziato, ancora capace, semplicemente, di emozionarsi, anche con meccanismi apparentemente semplici.

Kabhi Alvida Naa Kehna


Quell’estate mi passarono davanti altri volti ancora senza nome: un bel ragazzo dal viso fanciullesco che, nonostante l’incontro sia combinato, si innamora subito e per davvero della ragazza che gli hanno presentato, perché scatta con lei una magica, misteriosa affinità elettiva; poi un giovane alto dal profilo incredibile, al centro di un’estenuante bufera sentimentale in cui si confondono le ragioni dell’amicizia, della lealtà e, ovviamente, dell’amore.
In diversi film ho l’occasione di ammirare una donna piccola di statura, dalla recitazione espressiva, sobria e naturale, dotata di fantastici occhi color foglia d’autunno. Si accompagna spesso a due attori dai nasi importanti, tipicamente arcuati. Il primo è affascinante, pur non essendo propriamente bello: anche quando interpreta il ruolo del manager indurito o del bambinone sfacciato e ribaldo, conserva in sé un nucleo di vulnerabilità che fa tenerezza.



L’altro attore è quasi brutto: ha sopracciglia arcuate e denti irregolari. La prima volta che lo osservo interpreta un personaggio sgradevole: marito invidioso, padre rude, profondamente amareggiato dalla vita e ferito nel corpo e nell’anima, sfodera un rabbioso sarcasmo in ogni rapporto, usa schegge affilate di verità per ferire, a sua volta, chi ha davanti. Poiché il ruolo, per come è costruito, può suscitare antipatia, di riflesso anche l’attore subisce lo stesso destino: lì per lì non mi piace; anche la sua recitazione leggermente caricata non mi convince. Non riesce a conquistarmi nemmeno nel film in cui interpreta un ingegnere della NASA che torna nel suo villaggio natale, riscopre le sue radici, si impegna nella costruzione di una pompa dell’acqua e, in generale, nel miglioramento delle condizioni di vita della sua gente. Troppo smaccatamente didascalico. Per quanto lo indovinassi, ancora non avevo del tutto focalizzato che i film, in India, non sono solo evasione ma possono anche essere uno strumento duttile e chiaro di denuncia (a volte edulcorato, a volte neorealisticamente brutale) e di educazione, se non di elevazione, delle masse.

Bride and prejudice


Questo, comunque, era solo l’inizio. Storie d’amore solide e durature sono nate da prime impressioni errate di antipatia e pregiudizio: Darcy ed Elizabeth Bennet insegnano. Per rimanere in argomento, la versione in salsa bollywoodiana di Orgoglio e pregiudizio mi deliziò. Non commisi affatto l’errore di rapportarla col romanzo: era qualcosa di diverso e andava considerata come tale. Una lieve farfalla multicolore. Il cinema indiano è vorace nel suo eclettismo: coglie spunti ovunque e li personalizza in maniera inimitabile. L’attrice che interpretava l’Elizabeth indiana era di una bellezza non umana, talmente inarrivabile da non suscitare né invidia né gelosia. C’era solo da ammirarla e, forse, un po’ da lamentarsi che talvolta gli dei, lassù, distribuiscano i loro doni con troppa parzialità.

Taare Zameen Par


Le stagioni successive mi avrebbero riservato altre preziose sorprese: un sensibile, acuto, commovente e coraggioso film su un bambino dislessico, salvato dalla lungimiranza del suo meraviglioso maestro d’arte; la storia di un maturo chef indiano a Londra, caustico scapolo incallito interpretato da un elegante signore (e per signore intendo uomo signorile, dotato di stile e fascino) che ancora non sapevo essere nientemeno che il “dio” di Bollywood, e infine una lussureggiante pellicola di ambientazione storica su un grande imperatore e la sua principessa.
Quest’ultimo film sembrava riassumere in sé la quintessenza dello squisito gusto estetico indiano: oltre alla trama complessa, alla sensualità esaltata proprio perché capace di esprimersi con mezzi alternativi al mero contatto carnale sbattuto in faccia, l’opera sfoggiava una confezione extra – lusso capace di provocare un attacco di sindrome di Stendhal in qualsiasi amante / ammalato cronico di bellezza. La magnificenza dell’architettura moghul, la sontuosità dei costumi, gli interpreti ideali, la saturazione coloristica (che ritrovo sempre più accentuata nei prodotti degli ultimi anni, come in Ram – Leela): tutto manifestava un’aspirazione alla perfezione formale non fine a se stessa. Compresa la musica: piena, esotica, emozionante, trascinante verso nuovi e inesplorati lidi sonori.



Eppure era ancora, solo, un assaggio. Finalmente stavo ascoltando e vedendo almeno una parte di quelle componenti così essenziali del cinema indiano che sono la musica e la danza. Esse non sono un di più: sono fuse dentro, come in una lega. I brani musicali e di ballo, raffinatamente coreografici, sono importanti come i cori nella tragedia greca: sono poesia, energia vitale, introduzione e commento di situazioni e soggetti, espressione di sentimenti e di puro piacere. In essi, spesso, realtà ed immaginazione si sovrappongono e convivono: i desideri ancora nascosti, inespressi dei personaggi si alternano alla situazione concreta.
Avrei successivamente appreso che la musica costituisce uno dei pilastri dell’assiduo citazionismo interno del cinema indiano. Attraverso  canzoni e situazioni ormai diventate archetipiche e note al vastissimo pubblico, quasi costituissero un dizionario di base dell’immaginario collettivo, film successivi rimandano continuamente ad opere precedenti con richiami espliciti e facilmente comprensibili a chi ha dimestichezza con quel mondo. Ciò crea una rete di rimandi che contribuisce talvolta a dare l’impressione di un organismo unico, dai confini incerti ed in continua espansione. Insomma, una storia infinita: il sogno di qualsiasi ingordo lettore o spettatore.

Kabhi Khushi Kabhie Gham


Gli esempi sono numerosissimi: potrei ricordare tutte le volte in cui Shah Rukh Khan, il re Mida del cinema indiano, proprio l’attore che inizialmente non aveva incontrato i miei favori, nei film di cui è protagonista cita se stesso e i titoli della sua strabiliante carriera, intelligentemente costruita e costellata di successi. In Rab ne bana di jodi accenna, rivolgendosi al personaggio di Tani, a Kabhi alvida naa kehna, in Chennai express a  Dilwale dulhania le jayenge. C’è una scena, giusto in Chennai express, che è l’apoteosi del fenomeno che sto descrivendo: SRK e Deepika Padukone, dovendo comunicare tra loro senza insospettire i minacciosi e corpulenti ascoltatori seduti vicino, iniziano a cantare, cambiando le parole, brani celebri in lingua hindi, lingua sconosciuta, appunto, alle guardie del corpo di Deepika. Gli energumeni non capiscono ma nemmeno si irritano, perché immediatamente rassicurati da quelle note appartenenti ad un vocabolario musicale universalmente conosciuto. In Kal ho naa ho, la gustosa scena della riconversione del ristorante si svolge sulle note di Chale chalo del serio Lagaan, contribuendo, per contrasto, alla comicità della sequenza. In Kabhi khushi kabhie gham, Amitabh Bachchan, per ammorbidire la moglie contrariata, intona una nota canzone di Ghulam, seguito a ruota da un ironico SRK e sotto lo sguardo divertito di Rani Mukherjee che era stata la giovanissima co – protagonista di quel film. Quale grave amputazione era stata, nella programmazione televisiva nostrana, il taglio di quasi tutte le sequenze musicali nelle diverse pellicole, per accorciare i tempi e adattare i film al nostro limitato gusto occidentale!
Il fenomeno del citazionismo non riguarda solo dialoghi e musica ma addirittura le persone. In pellicole dal cast già perfettamente definito, vengono incastonati “cammei”, “apparizioni speciali” di “guest star” che spuntano improvvisamente, per lo più durante un numero musicale, col semplice obiettivo di dare un regalo al pubblico, di fargli una gradita sorpresa, facendolo sobbalzare sulle poltroncine nell’istante stesso del riconoscimento e offrendo anche per pochi minuti l’immagine ammirata dei volti più celebri.



Intanto Bollywood continuava a chiamarmi a sé in altri modi, anche quando, presa da altro, la dimenticavo. Quando ancora esistevano i videonoleggi, presi un film di Spike Lee, Inside man. Ormai sono poche le pellicole in cui vengono veramente curati anche i titoli di testa: dopo una breve introduzione, la pellicola (riuscitissima) di Lee iniziava con delle belle inquadrature di New York e di Wall Street ma, soprattutto, con una musica che mi stese al primo ascolto: era Chaiyya chaiyya e sarebbe passato ancora un bel po’ di tempo prima che riuscissi a vedere il film originale a cui quel micidiale brano apparteneva, Dil se.
Poi arrivò l’Oscar a The millionaire e, stavolta, oltre al resto, furono i titoli di coda a colpirmi. Beata ignoranza: ero semplicemente venuta a contatto con l’Ennio Morricone indiano, un genio delle colonne sonore: A. R. Rahman. Ma, appunto, non lo sapevo. Sapevo solo che mi piaceva. Da matti. Da ascoltare e riascoltare. Io, una patita del rock.



Venne il digitale terrestre: nacque un canale culturale nuovo, “LaEffe”. Una sera trasmisero un documentario che non potevo perdere: Bollywood: la più grande storia d’amore. Lo vidi integralmente due volte perché capii che finalmente avevo trovato un vademecum per orientarmi in un universo ancora tutto da scoprire. Avevo sfiorato, fino ad allora, solo la punta dell’iceberg. Il documentario mi piacque ma mi spiazzò perché era, più che altro, un puzzle vagamente tematico di sequenze cucite insieme con gusto e cuore, più che con dotti ragionamenti e sottili indagini su un fenomeno storico, artistico e culturale di vaste proporzioni. Grazie ad esso, “intravidi” per la prima volta frammenti di film risalenti all’illustre passato di Bollywood e percepii che il cinema indiano affondava le sue radici in grande profondità, che era indipendente ma aperto a mille influenze, sensibile ai cambiamenti della realtà circostante, vicina e lontana, come ogni oggetto artistico vivo. Cantava i mutamenti di un subcontinente in continua evoluzione e ne interpretava i sentimenti, le esigenze, il complesso patrimonio di lingue, tradizioni, religioni, letteratura.
Ma prima di soffermarmi su tali acute riflessioni, venni distratta, ancora al principio del documentario, da una sorprendente apparizione: vidi l’”imperatore Akbar” danzare, vestito non più di preziosa seta ma di una canottiera e di un paio di jeans attillati che fasciavano le sue lunghissime gambe. Restai senza parole di fronte alla disinvoltura con cui quella fortunata creatura governava il proprio corpo al ritmo di un modernissimo pezzo musicale molto occidentale come inclinazione ma sempre sottilmente speziato d’India. “Dovevo” vedere altro.

Lagaan


Mi tuffai nell’immenso archivio di YouTube. Fino a quel momento non mi ero preoccupata di dare un nome a quei volti ma per la mia ricerca ne avevo bisogno: come si chiamava l’”imperatore” dalle sorprendenti doti di ballerino? Trovato il nome, trovai tutti i video che volevo. Alcuni di essi erano stati visualizzati da milioni di persone. I commenti entusiasti sottostanti mi fecero capire che il cinema di Bollywood era amato da spettatori di lingua araba, slava, greca, ispanica. Dai video ai film il passo fu breve, anche se trovarli in streaming, sottotitolati in una lingua che fosse almeno in parte comprensibile per me (non dico l’italiano, troppa grazia, ma almeno l’inglese o al limite lo spagnolo) non fu così immediato. Avevo bisogno di altre guide che mi consigliassero, mi orientassero sui prodotti di maggiore qualità: così, oltre a Wikipedia, trovai il blog di Cinema Hindi. Era fatta: avevo le mie bussole, i miei strumenti di navigazione.

3 idiots


In principio, quindi, fu Hrithik Roshan. Il primo passo fu fatto in nome dell’assoluta bellezza.
Mi ricordai di Fanaa e del sensibile, espressivo maestro d’arte di Stelle sulla terra, il primo volto in assoluto a colpirmi: e fu la volta di Aamir Khan, attore, conduttore, produttore e regista. Dalla lunghissima carriera. Passai dalla visione di drammoni giovanili come Mann o Ghulam alla visione di film maturi e potenti come Lagaan (come dimenticarlo mentre, all’inizio, disturba la caccia degli odiosi inglesi?), Dil chahta hai (con quei tre azzeccatissimi ritratti maschili, ricchi di sfumature) e 3 idiots (con l’irresistibile personaggio di Rancho, dotato di un ammirevole mix di acume, candore, umanità, sete di conoscenza e pensiero laterale).

Guru


Mi imbattei nuovamente in Aishwarya Rai: non solo quella fanciulla meravigliosa possedeva una divina beltà e un innegabile talento, ma era anche uno degli esseri dotati di maggiore grazia nel ballo che avessi mai visto. Insieme a Hrithik Roshan, nell’action movie Dhoom 2, riassume tutto ciò che l’umanità può raggiungere in termini di perfezione. Nel video del brano tratto da Bunty aur Babli, Kajra Re, danza sfoggiando tutto il suo potente, malizioso fascino tra il suocero ed il marito.
Fu quest’ultimo, Abhishek Bachchan, l’anello successivo da aggiungere alla mia collezione: il comunicativo volto di Dostana e, soprattutto, di Guru, il degno erede di cotanta stirpe, capace di passare con uguale disinvoltura e con la stessa misurata simpatia ed eleganza del padre Amitabh dal dramma alla commedia.



Spesso un’ottima alchimia si crea, sullo schermo, tra lui e la bellissima dagli occhi autunnali, Rani Mukherjee, l’eccezionale protagonista di Black, con quella voce un po’ ruvida eppure soave e soprattutto una recitazione senza sbavature in ogni occasione, capace di riscattare con la sua sola presenza anche pellicole non eccelse. Accanto a lei tutti sembrano a loro agio: da Saif Ali Khan a Shahid Kapoor, l’eterno ragazzo, il tenero, spigliato, romantico protagonista del furbo Chance pe dance, del piacevolissimo Jab we met, di Kismat konnection e di Vivah.



Nel frattempo la mia fame cresceva a dismisura: nelle mie esplorazioni mi si presentava continuamente il volto dell’uomo dal naso importante che anni prima non mi era piaciuto, ma esitavo ancora ad affrontare la visione delle sue pellicole. Su Cineblog01 c’è un piccolo nucleo di film indiani (recentemente ho scoperto un più fornito archivio sul sito spagnolo Peliculashindu): uno di essi è Il mio nome è Khan. Al film, presentato al festival di Roma, la stampa italiana nazionale aveva eccezionalmente dedicato una certa attenzione. Ricordavo di averne letto e lo guardai. Non c’erano dubbi: l’uomo dalla recitazione un po’ caricata, quando voleva, sapeva essere un attore misurato e, indubbiamente, bravo. Molto bravo. Il suo “Forrest Gump” autistico colpiva al cuore. Di Kajol non ne parliamo nemmeno. Il ghiaccio era rotto: Shah Rukh Khan meritava attenzione, andava urgentemente rivalutato. Con prudenza mi accostai al film successivo: Kabhi khushi kabhie gham. Cast eccezionale, film meno. Ma ormai la mia parzialità nei confronti del cinema indiano era tale da indurmi a passare sopra i difetti: anzi, ad amare i difetti come i pregi, come in ogni passione degna di questo nome.
Kal ho naa ho: melò a tinte fortissime, soprattutto nella seconda parte. A raccontarlo a freddo, dopo la visione, c’è l’alto rischio di piegarsi in due dal ridere. Ma mentre lo guardi non ci riesci: tanta viscerale, drammatica ingenuità incute una specie di rispetto meravigliato. Anche quando uno SRK, quasi spezzato dal dolore del suo debole cuore affannato, la maglietta madida di sudore incollata al petto scultoreo, si trascina sul ponte incontro a Preity Zinta che, lungi dal sostenerlo, si aggrappa a sua volta, piangendo a dirotto, al povero malato capace di sovrumano altruismo, angosciato più per la felicità di lei che per il fantasma della morte che lo insegue da presso.
È la volta di Jab tak hai jaan: la mia antica antipatia perde un pezzo dopo l’altro, sgretolata dal misterioso carisma emanato da questo attore che lentamente non trovo più nemmeno brutto, anzi. In questo film, nel complesso abbastanza pregevole ma animato dal solito spunto narrativo macchinoso, melodrammatico e poco verosimile, vedo SRK cimentarsi per la prima volta in un ruolo “doppio”: c’è il Samar di prima dell’incidente, solare, allegro, coraggioso e tenace lavoratore immigrato in un’esosa Londra, ed il Samar disinnescatore di bombe, chiuso, corrucciato, sprezzante, teso in una continua sfida a Dio e alla donna amata che assurdamente lo ha abbandonato anni prima. L’uno contiene l’altro e viceversa, in una unione indissolubile. Come rimanere indifferenti davanti alla sua prima apparizione in moto, tuta mimetica ed  occhiali da sole, barba ruvida ad incorniciargli il viso? Come non drizzare le orecchie al suono della sua duttile e piacevole voce che recita la poesia dei titoli di testa?



Già, la sua voce. Gradevole ma sufficientemente neutra da poterne fare ciò che vuole. Da attore meticoloso e consumato ne fa un regale strumento espressivo, al pari delle fossette che gli si scavano nelle guance quando all’improvviso sorride, degli sguardi incendiari scoccati dai suoi occhi bruni o dei gesti ora decisi ora delicati che sa usare quando si avvicina ad una partner femminile. Bisogna ascoltarlo, quando non sbaglia un dettaglio, una sfumatura espressiva nel modulare le sue tonalità vocali: aspre e profonde, come il sordo ruggito di un felino, quando è l’ambiguo Don (diretto da un altro bel talentuoso dalle mille risorse, Farhan Aktar) o quando ricopre tutti quei ruoli da “cattivo” che lo hanno sempre attratto fin da giovane; alte e frivole, poi improvvisamente serie mentre, ad esempio, parla con Simran in  Dilwale dulhania le jayenge; dolci e sommesse quando è l’anonimo e modesto Suri in Rab ne bana di jodi; decise e taglienti nei panni dell’inflessibile ed esigente allenatore di Chak de! India. Nei casi in cui, in una sfida virtuosistica, Shah Rukh si cala negli “alter ego” dei suoi personaggi, oltre al fisico si trasforma, di conseguenza, anche la voce: accade con Don, quando finge di essere il suo sosia “buono” Vijay, o con Raj, la metà senza inibizioni di Suri.

Kuch Kuch Hota Hai


Le opere successive sono una sequela di colpi bassi emotivi: soffro insieme a Shah Rukh del suo amore ossessivo e disperato per l’ombrosa, taciturna, grandissima Manisha Koirala in Dil se; lo seguo beata nella sua lunga avventura sentimentale con Kajol nell’ormai mitico Dilwale dulhania le jayenge; mi strazio, ma dolcemente, innanzi all’ineluttabile, tragico, volontario sfacelo dell’inconsolabile Devdas, privato della sua splendente Paro; applaudo mentalmente il suo monologo finale, inno all’uguaglianza e alla fratellanza, in Veer – Zaara, mentre cerca (inutilmente) di sembrare invecchiato e spezzato ma non piegato dalla lunghissima prigionia; mi si fanno gli occhi lucidi durante la scena del treno di Kuch kuch hota hai. Nessuna commedia americana avrebbe mai potuto raggiungere un tale livello di sottigliezza: Rahul corre lungo il binario, cercando affannosamente il vagone in cui è seduta, affranta, la sua migliore amica, Anjali. La ragazza sta partendo per non più tornare e lui vuole fermarla. Con la tipica chiaroveggenza femminile, Anjali ha scoperto, ben prima di Rahul, che il suo sentimento d’amicizia si è approfondito, si è trasformato in un potente primo amore. Ha provato a lottare per esso, ad attrarre a sé l’amico ma ha perso contro la femminile ed intelligente Tina. Stare accanto a Rahul come prima è divenuto, perciò, impossibile per lei. Il ragazzo, intanto, tenta di far scendere l’amica dal treno e di fronte alla sua gentile ma decisa resistenza, si offende come un bambino capriccioso. Affetta indifferenza, mentre Anjali lancia un ultimo sguardo di profonda comprensione ed intesa con Tina che sta assistendo alla scena. Anjali, senza parole, con quell’occhiata affida l’amico a Tina, le cede la responsabilità della sua felicità e, quasi a donare una parte di sé alla rivale, si sfila dal collo una sciarpa rossa e gliela lancia, in un ideale passaggio di consegne. Il treno fischia: quel suono risveglia Rahul che si rende improvvisamente conto che il distacco definitivo è imminente, che la sta perdendo forse per sempre, insieme a tutto ciò che avevano condiviso. Manda, quindi, al diavolo qualsiasi atteggiamento da duro ed insegue il treno cercando di salutare degnamente Anjali, cercando di dirle quanto lei gli mancherà. Poi si ferma ad osservare fino all’ultimo il treno che si allontana, sbattendo incredulo gli occhi pieni di lacrime che non cadono, sbalordito dall’improvvisa sofferenza che la separazione gli sta provocando e a cui era totalmente impreparato. Magnifico. Tutto vecchio come il mondo, eppure raccontato come se fosse nuovo. Benedetti i treni e le stazioni nella cinematografia indiana, fonti inesauribili di scene madri.

Asoka


Il mio equilibrio viene definitivamente squassato dalla visione di Shah Rukh nei panni del principe Ashoka. È la fine: ormai sono cotta. Niente può indurmi a considerarlo meno che bellissimo: anche quando in Rab ne bana di jodi sfoggia quegli improponibili baffetti e gli occhiali dalla montatura spessa; dietro c’è pur sempre lui, capace di intenerire anche le pietre nel ruolo dell’uomo ordinario reso eroico dalla totale, incrollabile abnegazione e devozione nei confronti della donna amata.
SRK incarna lo spirito stesso del cinema indiano: diretto, lineare, essenziale eppure, insieme, raffinato, nonostante manierismi e formule fisse. Uguale ma sempre diverso. Nel primo film di Shah Rukh, Deewana, c’è già tutto lui, il suo modo futuro di porsi e recitare; su quel nucleo l’attore ha saputo lavorare aggiungendo nel tempo una sfaccettatura all’altra. 

Devdas


Un filo sottile ed invisibile collega la scena della terrazza in Deewana, in cui un giovanissimo SRK sveglia Divya Bharti con un lieve soffio sul viso e una delle mie scene preferite di Devdas. Deva scopre finalmente tutta l’incandescente bellezza di Paro (che si era rifiutata di mostrarsi prima), addormentata nella corte e illuminata dalla luce di una luna piena artificiale. Lui si avvicina cauto e la ammira muto. Il confronto mentale che probabilmente il personaggio maschile sta facendo fra la bambina che aveva conosciuto e la donna che sta osservando si traduce, a livello sonoro, nella mescolanza tra il canto femminile di sottofondo e gli echi della voce infantile di Paro. Un ricciolo ricade sul viso perfetto di Aishwarya Rai, interrompendone le linee, e Shah Rukh, con un delicatissimo soffio, lo scosta. Il sonno di Paro si alleggerisce e lei fa un movimento: la sua mano sta per cadere e bruciarsi sulla piccola lampada ad olio che le arde accanto ma Dev, rapido, frappone la sua. Per alcuni, lunghi secondi restano così: la fiamma ha risparmiato la mano di Paro ma intanto scotta la mano di Devdas che, però, perso nella contemplazione, non si accorge del dolore finché la fanciulla non si rigira nel sonno dalla parte opposta. Intano la luna si è spostata nel suo corso: l’immobilità della scena è interrotta, oltre che dai minimi movimenti dei protagonisti, dalle ombre colorate delle vetrate circostanti che si allungano sul pavimento. Devdas non sa che quella piccola lampada rappresenta per Paro lui stesso, la sua esistenza e, nel contempo, l’eterna fedeltà giurata fin dall’infanzia da un cuore femminile. Dev, perciò, proteggendola da quella fiamma è come se l’avesse brevemente protetta da lui e dalle future sofferenze di un amore irrealizzabile, eppure indispensabile per entrambi. Nella loro tragica esperienza, la passione non sarà mai scissa dal dolore. Non a caso, pur avendola salvata dal fuoco, Devdas decide ugualmente di lasciare a Paro, prima di andarsene, un segno della sua presenza lì, quella notte, che è come un bacio, ma un bacio rovente, che fa male: depone sulle labbra della fanciulla una minuscola goccia d’olio della lampada accesa, provocandone il risveglio definitivo. Forse, a posteriori, ho lavorato troppo su metafore e simboli; tutto potrebbe essere letto in maniera molto più semplice. Ma è appunto questa, come dicevo, la caratteristica del cinema indiano: semplicità unita a raffinatezza estrema.

Barfi


Una sera, mentre ancora una volta mi avventuravo per le vie di Bollywood, incrociò la mia strada un giovane sordomuto di nome “Barfi”. Il film inizia con un tipico inseguimento da “guardie e ladri”: la polizia è venuta per arrestare Barfi, accusato nientemeno che di rapimento, ed il ragazzo si lancia in una rocambolesca fuga. Perfino mentre scappa, Barfi infonde la sua personalità e il suo stile nell’azione, rendendola uguale a lui: divertente, creativa, fantasiosa, funambolica. Mentre osservo quel giovane dal fisico agile, longilineo e asciutto sgusciare via come un’anguilla mi balena un paragone forse fin troppo illustre: Chaplin e il suo Charlot. Questo azzardato parallelo è motivato dall’assoluta spontaneità con cui Ranbir Kapoor dà vita al suo personaggio che non ha bisogno di parole per comunicare e riempire il silenzio di delicatezza e incanto. L’aderenza al ruolo è totale e apparentemente naturale: difficile dire dove finisce l’uomo, la sua sensibilità e dove inizia la maschera, la figura di fantasia in cui l’interprete è disinvoltamente scivolato. Ranbir è, senza alcun dubbio, nato per fare l’attore: nuota nel cinema come nel suo elemento. Lo trovo impeccabile in ogni occasione: sia come ballerino sia quando sullo schermo, con la verve che gli è tipica, gioca a comportarsi da vero, sfacciato besharam (film decisamente mediocre che ho visto solo in virtù di lui). Il bello è che riesce a conquistarmi anche solo attraverso la visione di frammenti: bastano quelli per farmi immaginare il resto del film e per farmi affezionare ai personaggi a cui presta il suo viso da ragazzo normale. Lo vedo, a Parigi, inseguire il suo sogno di girare il mondo, lasciandosi (temporaneamente) alle spalle Deepika Padukone in Yeh Jawaani Hai Deewani; affannarsi per cercare di  distogliere Priyanka Chopra dai suoi cupi pensieri suicidi in Anjaana anjaani; distrarre, indicando la luna, un’intera folla vestita di bianco per riservare solo a se stesso la contemplazione della vera meraviglia, la bellezza di Sonam Kapoor, in Saawariya; sforzarsi di diventare un essere umano adulto, maturo e responsabile staccandosi dal suo precedente “io” simpatico, infantile e pigro in Wake up Sid; affrontare tutte le fasi di una lunga crescita personale e professionale, nei panni della “Rockstar” Jordan (film dalla colonna sonora assolutamente spettacolare).

Goliyon Ki Rasleela Ram-Leela


Intanto l’oceano di Bollywood continua a far emergere, inesauribilmente, dalle spume delle sue acque nuove promesse e nuove conferme: Oscar Wilde avrebbe certamente dedicato volentieri qualche pagina ai grandi occhi e ai piccoli piedi danzanti come colombe bianche di Deepika Padukone; pur non capendo, senza sottotitoli, assolutamente nulla del fitto dialogo notturno, in un giardino saturo di profumi e pavoni, tra lei e Ranveer Singh, novelli Romeo e Giulietta, in Ram – Leela, mi sembra di capire tutto. Mi bastano le loro espressioni, le loro intonazioni, l’appassionata e audace intimità dei loro sguardi e movimenti. Il mio orecchio ha ormai una tale dimestichezza con i suoni della lingua hindi da darmi, talvolta, l’illusione di capirla e conoscerla. Ma se le strutture morfo – sintattiche mi sono ancora ignote, ogni tanto colgo con estrema soddisfazione qualche frammento di lessico, grazie alla mia stele di Rosetta, l’inglese.



Al di là delle scoperte linguistiche, quali altre emozioni mi riserverà il futuro, quali volti si aggiungeranno alla mia galleria? Anushka Sharma, Parineeti Chopra, Alia Bhatt, Shraddha Kapoor, le ragazze della porta accanto che inseguono sulla via della fama dive come Kareena Kapoor e Katrina Kaif? O Ali Zafar (dalla voce meravigliosa e dal poliedrico talento), Siddharth Malhotra, Arjun Kapoor, le nuove leve? Quali altri cantanti e compositori amplieranno le mie vedute musicali, dopo A. R. Rahman (eccezionale anche la sua colonna sonora di “Highway”), Atif Aslam, Sonu Nigam?



Nella vita bisogna fare ciò che ci rende felici. Il cinema indiano, se si è naturalmente predisposti a subirne il fascino, ha il potere di contribuire alla felicità: ha la chiave per richiamare il sorriso, consolare e far fremere i cuori inguaribilmente romantici, assetati di ideale e di assoluto. In un mondo finito ed imperfetto narra all’ennesima potenza, quando ciò è possibile, l’eterna fiaba del “per sempre” e del “lieto fine”. È per questo che piace tanto ai ragazzi (lo dico per esperienza diretta): parla in un linguaggio a loro comprensibile, cattura la loro attenzione, rapendoli in storie che danno a tutto un senso compiuto, anche alle difficoltà e alle sofferenze, risolvendole in una benefica catarsi. Quando vuole, però, sa anche turbare e far riflettere. Se l’universo maschile, poi, vuole avere il manuale definitivo per andare alla conquista dell’universo femminile, basta che faccia tesoro di alcuni fondamentali titoli della cinematografia bollywoodiana e relative sceneggiature. Tutto ciò che una donna vorrebbe sentirsi dire è lì.

Poche, ma importanti, le avvertenze:
1) Bollywood crea dipendenza. Consumare con accortezza.
2) Bollywood vive di bellezza e illusioni. Lo stridore con alcuni aspetti mediocri della realtà quotidiana potrebbe causare un po’ di disappunto.
3) Bollywood non piace a tutti. Cercare di non litigare con chi non la conosce abbastanza.